Il potere delle storie e della rappresentazione

What's your story

Foto di yogesh da Pixabay

Introduzione

Sabato 8 febbraio 2020 sono stato invitato da Martu Palvarini di Asterisco Edizioni a Milano, in occasione di un evento per presentare Fuori dal Dungeon. Si tratta di un’antologia a cura di Martu stessa; raccoglie vari articoli tradotti in italiano che hanno lo scopo di affrontare la questione della rappresentazione di diverse identità marginalizzate nel gioco di ruolo occidentale.

Martu è anche l’autrice di Dura Lande, un progetto molto interessante attualmente in crowdfunding.

Nel corso del mio intervento ho fatto diverse riflessioni. Mi piacerebbe riprenderle al fine di elaborarle di più. Vorrei fissarle da qualche parte.

Si tratta di pensieri e considerazioni maturati nel corso del tempo:

  • giocando diversi giochi di ruolo fortemente tematici;
  • ascoltando le parole di designer con una consapevolezza politica profonda, in particolare Avery Alder;
  • approfondendo alcune tematiche femministe e LGBT+ durante la scrittura di Stonewall 1969.

In parte li ho già concretizzati in un’intervista pubblicata su GDR Time di gennaio scorso, ad opera di Daniele Di Rubbo di Geecko on the Wall.

Non si tratta, quindi, di riflessioni originali. Sono piuttosto mie rielaborazioni su temi ben più vasti e ampiamente trattati da altre persone, nell’ottica del gioco di ruolo quale mezzo per raccontare storie e influenzare la cultura.

Storia e narrazione

Nel corso di questo articolo mi riferirò alla storia come al contenuto narrato, cioè la successione degli eventi e delle situazioni raccontate così come sono avvenute, o così come si immagina che siano avvenute.

Parlerò invece di narrazione come il modo in cui la storia viene presentata, cioè con quale punto di vista, con quale intenzione e con quali mezzi.

In sintesi, la storia è il cosa raccontiamo, mentre la narrazione è il come lo raccontiamo.

Nel caso del gioco di ruolo, la storia viene prodotta alla fine della partita; la narrazione è il gioco emergente, generata dalle interazioni tra i giocatori e l’effetto del sistema.

Le storie sono una fonte di potere

Avete mai pensato a quanto siamo legati alle storie che raccontano la nostra esperienza quotidiana? A quanto questa sia immersa in un mondo fatto di storie e narrazioni attraverso cui interpretiamo e comprendiamo la realtà che ci circonda?

Non mi riferisco solo alle favole, ai romanzi, ai film o alle serie tv. Penso anche a come i fatti che accadono sono riportati e narrati, portandoli alle nostra attenzione come storie vere.

Spesso non ce ne rendiamo conto perché gli aspetti più definenti della nostra cultura sono talmente radicati dentro di noi e li consideriamo così importanti che arriviamo a crederli addirittura oggettivi, imprescindibili e naturali.

Non ci rendiamo conto che alcuni aspetti della società che crediamo intrinseci dell’esperienza umana in realtà sono espressione di una cultura specifica.

I cliché sono strumenti di narrazione

Prendiamo come esempio il cliché dei giochi per bambine e giochi per bambini. Anche quelli sono mezzi per narrare storie e il modo in cui lo fanno è significativo.

In genere per i maschietti sono previsti giochi di costruzioni, robot e soldati oppure esperimenti. Incentivano l’esplorazione.

Per le femminucce, invece, sono previste bambole, stoviglie, pentole finte, strumenti per la pulizia, trucchi finti. Incentivano il prendersi cura di qualcuno, il lavoro domestico e la ricerca della bellezza.

Se questi giochi sono la narrazione, quali storie racconteranno ai bambini e alle bambine? Crescendo, a bambini e bambine sarà chiaro, a livello inconscio, cosa ci si aspetta da loro.

Noi siamo le storie che raccontiamo

La nostra cultura è sostenuta dalle storie e dalle narrazioni attraverso cui la assimiliamo e continuiamo a influenzarla. È un processo in continuo movimento. Le storie e le narrazioni sono talmente importanti che ci sono persone disposte a pagare molto perché la propria storia sia raccontata, o perché la propria narrazione delle vicende sia quella più virale.

Si usa dire che la storia è scritta da chi vince quando finisce una guerra. Chi controlla la storia, controlla il presente. Chi controlla come le storie vengono narrate, controlla gli aspetti dominanti di una cultura.

Attraverso la narrazione di storie possiamo cambiare chi siamo, i nostri gruppi sociali e in definitiva la nostra cultura.

Le cose non serve che siano accadute per essere vere. I Racconti e i Sogni sono le verità ombra che dureranno quando i semplici fatti saranno polvere e ceneri, e dimenticati.

Neil Gaiman – Sandman – Le Terre del Sogno

Non è immediato capire quanto siano importanti le storie per noi e come contribuiscono in maniera sostanziale a modellare la nostra comprensione del mondo.

Almeno finché non ci scontriamo con la mancanza di storie che parlano di noi o con l’assenza di narrazioni che incorporano il nostro punto di vista.

Si tratta di una situazione molto difficile da comprendere se non si è sperimentata direttamente, proprio perché abbiamo l’abitudine di darla per scontata.

Il punto è che noi siamo le storie che narriamo.

Storie, narrazioni e tradizione

La nostra cultura, le nostre tradizioni e la nostra identità si fondano sulle storie e le narrazioni che tutti i giorni ci circondano. Per certi versi, potremmo addirittura definire la tradizione come l’insieme delle storie e delle narrazioni con cui i nostri antenati e le nostre antenate esercitano una pressione su di noi e sulla nostra società, anche dopo la morte.

Lo scopo della tradizione è quello di continuare a spingere le persone e la società ad aderire a norme e principi che sono serviti, nel corso di epoche passate, a preservare lo status quo del potere oppure la sopravvivenza. Le storie e le narrazioni che caratterizzano la nostra tradizione definiscono l’identità del nostro gruppo sociale.

Alcune di queste storie hanno mantenuto una utilità e una saggezza che possono esserci d’aiuto; altre invece si mal conciliano con il come ci siamo evoluti e si devono quindi adattare e trasformare, magari fino a stravolgere il senso originario che avevano.

Il rosa è per le femmine, il blu per i maschi!

Un esempio si può trovare nel tradizionale abbinamento del colore azzurro per i maschi e del colore rosa per le femmine. L’abbinamento per genere di questi due colori è così fortemente radicato che si sollevano parecchie sopracciglia se un bambino ama o veste il colore rosa. Un bambino che adora il rosa, in fondo, che tipo di narrazione rappresenta?

Una risposta l’abbiamo avuta quando per una mamma è diventato inconcepibile rischiare di creare confusione nell’identità di genere di suo figlio. Si è arrabbiata con le maestre dell’asilo perché erano rimasti solo dei pantaloncini rosa come ricambi e ne avevano usato uno per cambiare un maschietto che si era fatto la pipì addosso. Per la madre sarebbe stato meglio che il figlio restasse bagnato e sporco di pipì che vestito di rosa. Questa è una storia vera, purtroppo. Eppure il rosa un tempo era un colore senza genere.

Il velo della Madonna è rosa?

Il colore rosa è generalmente sinonimo di femminilità nella nostra cultura. Il blu è collegato invece al maschile. Tuttavia, i due colori hanno preso questo significato solo in un tempo relativamente recente, per via di scelte arbitrarie di marketing dagli anni Quaranta in poi. Gli infanti fino all’epoca dei nostri nonni (o bisnonni per la generazione più giovane) vestivano di bianco, perché era facile lavare capi bianchi bollendoli e candeggiandoli senza rovinare il colore. Fino agli anni Trenta il rosa era un colore senza genere, spesso indossato dagli uomini. All’inizio del Novecento, per altro, si era affermata tra i ragazzi una preferenza per il rosa, in quanto colore vivace e deciso e l’azzurro per le ragazze in quanto più delicato.

L’azzurro, il celeste e il blu, per altro, sono colori usati per rappresentare il velo della Madonna, la figura femminile virtuosa per eccellenza nel mondo cattolico. Il blu, insieme al rosso, hanno un significato sacro per la rappresentazione della Madre e del Figlio. Anche questa è una narrazione, ed è più antica del rosa e azzurro come li intendiamo oggi.

Madonna con Bambino e le sante Caterina e Maria Maddalena di Giovanni Bellini
Immagine tratta da Wikipedia

Nei secoli antecedenti al Novecento, da quando arrivò in Europa, il rosa era un colore per ricchi. Era indipendente dal genere, e spesso veniva associato a figure maschili e virili, come i re o i principi. Anche i principi bambini. Su questo articolo de Il Post c’è un approfondimento in merito, e un altro anche su questo di Repubblica.

Ritratto del futuro re di Francia con un abito rosa

Immagine tratta da Wikipedia

Non è necessario che le storie siano vere per esistere

Un altro esempio attuale di stravolgimento di una narrazione è quello delle persone che oggi si professano cattoliche, ma che pubblicamente sui social gioiscono quando si ha notizia di un barcone di disperati affondato al largo delle coste del Nordafrica. Non sono un perfetto esempio de ama il prossimo tuo come te stesso, che è alla base della narrazione del messaggio evangelico; né del racconto sul giudizio finale in Matteo 25,34-46. Sicuramente, però, incarnano l’urgenza della narrazione che ci avverte di come sia in atto un’invasione di forestieri che vengono a casa nostra per vivere sulle nostre spalle con 35€ al giorno e prendersi le nostre donne, esibendo addirittura degli smartphone di ultima generazione nei campi di accoglienza.

Questa storia per altro non è vera ed è raccontata da qualcuno che durante diversi comizi politici ha ripetutamente baciato il crocifisso, il simbolo che rappresenta il cattolicesimo per eccellenza. C’è sicuramente uno stato di emergenza umanitaria e sociale da gestire, nelle cui cause fondative l’Occidente ha le sue responsabilità, ma non siamo soggetti ad alcuna reale invasione di massa o sostituzione etnica.

Questo però non importa: non è necessario che le storie siano vere per esercitare un’influenza su di noi come se lo fossero. In altre parole, le storie non devono essere vere per esistere, ma il loro impatto su di noi si verifica a prescindere che siano vere o no. Soprattutto se noi le percepiamo e trattiamo come vere. Questo è il loro potere.

Le fake news sono narrazioni e storie

Si tratta di un potere molto evidente in un’epoca come la nostra, dove la diffusione delle fake news tramite i social può influenzare anche le sorti di una campagna elettorale.

Questo è magnifico, ed è vero! Non è mai accaduto, ma è comunque vero. Che arte magica è questa?

Puck. Neil Gaiman – Sandman – Sogno di una Notte di Mezza Estate

Le identità si definiscono attraverso le storie e le narrazioni

Come le storie ci influenzano è direttamente collegato alla narrazione con cui sono raccontate, quindi al punto di vista che veicolano.

Questa considerazione ha dei risvolti importanti: è grazie alla nostra capacità di immaginare e di formalizzare quello che immaginiamo come storie, eventualmente creando nuove parole, che possiamo comprendere, spiegare e influenzare la realtà che ci circonda, nel bene e nel male. Se c’è una storia che racconta la nostra esperienza o una narrazione che riflette il nostro sentire, allora possiamo immaginarla. Se possiamo immaginarla, allora può esistere, le possiamo attribuire un nome e può essere comunicata ad altre persone.

Questo processo non è una prerogativa recente, ma ha sempre fatto parte di noi come esseri umani. Fin da quando gli esseri umani sono stati in grado di immaginare qualcosa e lasciare pittogrammi rupestri hanno raccontato storie con cui hanno costruito tribù, comunità, società e, successivamente, civiltà. Le identità si definiscono attraverso le storie e le narrazioni.

Fotografia de La Caverna delle Mani, a Santa Cruz
La Cueva de las Manos – Santa Cruz

2 pensieri su “Il potere delle storie e della rappresentazione”

I commenti sono chiusi.